Non c’è articolo in ambito motorio, scolastico e sportivo, né protocollo d’intesa o decreto legislativo e ministeriale, in cui, nei preliminari e nei dispositivi, non si ribadisca l’intenzione di definire, entro breve, le competenze di base, le competenze strategiche trasversali, le competenze polivalenti e tutte le competenze trasferibili.
La redazione di programmi di apprendimento basati sulla “tavola delle competenze” è ormai di grande impiego in tutti i settori (scolastico, motorio, sportivo, etc.).
Vorrei, però, fare una precisazione in merito.
Le intenzioni sono certamente buone, ma si prestano a un’immediata osservazione. Se fosse così facile costruire programmi nazionali (scolastici, motori, sportivi) basati sulle competenze, sarebbe opportuno che i sostenitori di questo programma di ricerca definiscano con precisione le competenze da promuovere subito e quelle da promuovere dopo e non generalizzare.
Che cosa è una competenza?
Siamo tutti d’accordo nel dichiarare che le competenze non sono conoscenze. Le conoscenze sono i contenuti essenziali della formazione, un repertorio dei contenuti, dei metodi, delle sintassi disciplinari o interdisciplinari che si reputa non debbano mancare dal bagaglio culturale di ogni persona.
Un conto sono le conoscenze, un altro conto l’utilizzazione delle conoscenze come occasione per crescere ulteriormente e per risolvere problemi concreti.
La competenza si colloca in questo secondo versante ed evoca, non tanto il sapere qualcosa, ma la capacità di ciascuno di impiegare questo sapere per agire bene e “come si deve”, in una situazione reale.
Lo sbocco finale del vocabolo “competenza” non è solo la dimensione conoscitiva (la theoria) e quella tecnico-operativa (il fare della techne), ma anche quella pratica in senso classico (phronesis), legata all’abilità del fare bene le cose che si devono fare e del farle come si deve, per risolvere al meglio possibile i problemi che si presentano, nelle circostanze date e tenendo conto di tutti gli aspetti in gioco (la matrice originaria di questo modo di intendere la competenza è aristotelica).
Per noi definire e inserire le competenze essenziali a livello nazionale in un qualsiasi settore, è un’impresa titanica.
Esse, avendo un deciso carattere contestuale, situazionale (knowledge in action) ed essendo il risultato di un’interazione sistematica tra il soggetto che le deve maturare, gli oggetti materiali lo circondano e le azioni di altri soggetti con cui si entra in relazione (setting), non sono identificabili in astratto.
Non per nulla, la modalità, che potremmo definire illuminista (cognitivista e logico-scientifica) di definire le competenze è oggi in letteratura molto controversa.
Non si possono definire per tutti le competenze minime essenziali, ma queste devono essere decontestualizzate a livello locale di territorio (regione, città, comune, paese, scuola, classe, Società Sportiva).
E’ in questa situazione, che i tre momenti del pensare le conoscenze (di metodo, di linguaggio e di contenuto), del fare concreto riferito alla soluzione di problemi concreti e nell’agire (nel conoscere e nel fare, in modo saggio e giusto) si fondono.
E’ perciò compito degli attori del progetto educativo (Genitori, Insegnanti, Istruttori, bambini) concordare in modo creativo, negoziabile e riflessivo, le competenze da promuovere, sulla base delle conoscenze stabilite necessarie.
In questo contesto l’autonomia delle famiglie, delle scuole, delle Società Sportive, lascia, in questo contesto, aperti molti problemi. Genitori, Insegnanti, Istruttori sono capaci di ragionare e agire senza l’impulso che proviene dall’alto?
Quale è la prospettiva?
Ci stiamo avviando verso un “centro” che governa, cioè che detta le norme generali alle quali tutti devono attenersi e una “periferia” che deve agire in funzione delle norme generali (altrimenti è tagliata fuori!).
Sicuramente ci sono altri programmi, altre metodologie di insegnamento (che cosa insegnare, quando insegnare e cosa insegnare, all’interno di quale senso culturale), e altre filosofie di apprendimento: questo significa libertà di insegnamento!
Programmi di insegnamento o di apprendimento?
La questione si sposta sul modo di intendere:
– “che cosa” insegnare ai soggetti;
o
– “che cosa” i soggetti devono dimostrare di aver appreso alla fine.
L’importante è che il “che cosa“ si traduca in obiettivi misurabili e in standard di prestazione relativi a tali obiettivi.
Questi programmi dovrebbero tracciare un quadro generale, così da lasciare alle Agenzie Educative in genere il compito di scegliere un percorso piuttosto che un altro.
Vorrei segnalare alcune conseguenze di questa doppia lettura del “che cosa”:
– se si scegliesse la prima ipotesi (che cosa insegnare), il “che cosa” riguarderebbe soltanto l’avere di ciascun soggetto (capacità, sapere teorico, sapere operativo, saper fare);
– se si scegliesse la seconda ipotesi (dimostrare di aver appreso), il “che cosa” riguarderebbe non solo l’avere, ma anche l’essere di ciascun soggetto.
La consapevolezza di sapere come fare una cosa non significa necessariamente essere in grado di farla, come si deve, in una situazione reale data, attribuendole un senso motivante per chi la compie, spinge chi pensa che i programmi di insegnamento e di apprendimento che arrivano dal centro, debbano interessarsi anche della dimensione (come fare, cosa insegnare o apprendere), non solo in termini di conoscenze essenziali (why?) e di abilità essenziali (how?), ma anche in termini di competenze.
La competenza non è mai solo un sapere qualcosa o saper fare qualcosa, è molto di più. Si riferisce alla capacità di ciascuno di impiegare questo sapere e saper fare (per forza di cose ancora astratti), dentro la vita, i problemi e i significati reali di ciascuno. Le competenze, quindi, hanno un deciso carattere contestuale, situazionale, concreto e hanno sempre a che fare con le visioni del mondo, i significati, i mondi vitali specifici di ogni persona.
Programmi per competenze? No grazie.
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